Renato
Spagnoli
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l’artista
in mostrA
interventi critici
Acquasanta
Terme 1971
Foto Alfredo Libero Ferretti |
MASSIMO CARBONI
Presentazione in catalogo Studio Gennai, Pisa 1997 Ci sono coerenze stolide e coerenze intelligenti. Ci sono
coerenze arroganti che si legittimano come tali soltanto perché impermeabili
e sorde alle trasformazioni dei contesti e dell'humus ambientate, e coerenze
«dialoganti» che sanno ascoltare l'esterno per lasciarsene fruttuosamente
fecondare. Coerenze che sono semplicemente ripetizione di moduli ormai vuoti
ma rassicuranti, e coerenze che affermano la serietà di un percorso
espressivo, insomma un valore, una dimensione etica. Nel caso di Renato Spagnoli, è al secondo tipo di coerenza che
bisogna fare appello. Non è allora un caso se proprio gli sviluppi interni e
le direzioni di ricerca - per definizione plurali, aperte - che il suo
itinerario artistico ha conosciuto in tutti questi anni - ormai non pochi -
non abbiano mai cessato di mostrare e confermare in varie forme e modalità
che la riflessione operativa (e prima di tutto, certo, mentale, progettuale e
anche di scelta culturale ed espressiva a monte) attorno al linguaggio
strutturalmente autonomo delle forme visive resta la sua costante più forte
ed evidente. In sintonia con alcuni degli indirizzi più fecondi della pittura
moderna e contemporanea - e comunque caratterizzando uno sviluppo progressivo
che nel suo percorso non data certo da oggi - il quadro in Spagnoli si fa
oggetto, non più finestra sul mondo ma cosa del mondo. Così che la netta
diminuzione - fino all'azzeramento - dei quoziente di allusività metaforica
corrisponde all'aumento esponenziale dei tasso di implicazione reale
dell'opera nell'esistente, nello spazio effettivamente vissuto. Se tutto ciò resta indubitabile perché è la stessa
organizzazione formale, la stessa costituzione percettiva dei lavori a
consegnarcene l'evidenza, tuttavia - e nello stesso tempo - non appare definitivamente
spezzato il rapporto con un orizzonte di senso evocativo collocato al di là
della semplice forma plastica che «dice» solo se stessa. A ben vedere,
insomma, la trasformazione in oggetto del quadro riesce a «salvare»
l'immagine in un fragile e delicato equilibrio che non annulla radicalmente
le sue componenti di evocazione, di rimando ad altro, al mondo dei
significati in via di costituzione. La composizione rimane aniconica, certo;
epperò, a suo modo, «racconta», e non solo in virtù dei titoli delle opere,
spesso così «narrativi» sia pure in senso ora sentimentale ora ironico. E per convincersene basterebbe osservare come sia costante in
molti lavori l'elemento diagonale - un poligono irregolare che si frammette -
talora come a forza - tra due elementi di base quasi a scomporne, a
dissociarne l'originaria unità. Non è soltanto un'operazione plastico -
geometrica che torna su se stessa. t un'operazione sul senso: guidata,
controllata, ma evocativa. Resta insomma aperto - sebbene riformulato - quel
varco stretto che stacca l'immagine dal suo supporto. Tanto che non sarebbe
affatto improprio - ribaltando i termini della questione ma solo per
verificarne l'incidenza da un altro versante - concludere che è proprio
l'immagine (l'immaginario) che ha inglobato il suo supporto conferendogli
quel senso di apertura metaforica e progettuale, di indicazione futuribile
(non importa quanto utopica) verso una ricomposizione tra segni e cose, tra
forma ed esistenza. Massimo Carboni |
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